Impresa fallita

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Aborto: interruzione, spontanea o procurata, della gravidanza entro il sesto mese. Fig. impresa fallita, opera mal riuscita.

Questa è la definizione da vocabolario.
Io mi ci sono trovata dentro in un pomeriggio pieno di sole, un febbraio di undici anni fa.
Fino ad allora per me non era altro che una parola, ma farci i conti è stato molto più duro.

Avevo 24 anni e un marito da amare.
Non ci rendemmo conto di come rimasi incinta, ma fummo subito pronti ad accettare l’idea con quella buona dose di spensieratezza dei vent’anni.
Vivevo questo mio status in modo leggero, presa dal ruolo di donna gravida, incosciente, felice, in preda a crisi di gioia pura, completamente menefreghista del mondo e irresponsabilmente già innamorata di mio figlio.

Un amore durato 17 settimane e 4 giorni.

Nessun sintomo, nessun preavviso, nulla che lasciasse presagire che un omino con un cartellino sul petto chiamato Destino avesse già deciso che sarebbe stato di quel figlio, solo la normalissima voglia di fare pipì, che già conteneva un foglio di via, senza appello.

Ricordo bene quel pomeriggio assolato, l’attesa in ginecologia, reparto che da noi è attiguo alla maternità.
La freddezza dei dottori, che parlavano del feto morto, senza tanti riguardi per chi quel feto lo considerava di più, molto di più.
Poi un dolore fisico, acuto, che mi lasciò vuota, stremata, ripiegata su me stessa, senza voglia nemmeno di piangere, solo di dormire, per non sentire più nulla e nessuno.

Interruzione spontanea della gravidanza, collasso dei villi placentari.
La condanna del mio corpo a quel figlio voluto.
Il rifiuto del mio corpo di conservare colui che avrebbe dovuto proteggere e crescere.
Perché?

Impresa fallita, opera mal riuscita.
Definizione figurativa molto più azzeccata di quella testuale, perché era esattamente come mi sentivo io: fallita, su tutta la linea.

E sola, maledettamente sola.

Eppure mio marito era accanto a me.
La mia famiglia era con noi.
Nessuno poteva darmi sollievo in quel tunnel, nessuno sfiorava il mio dolore.
Ho abbandonato al suo dolore anche mio marito, egoisticamente presa dal mio.

Un dolore che viveva in simbiosi con me.
Lo prendevo, lo accarezzavo, lo cullavo, non mi lasciava mai.
E quand’anche capitava di dimenticarmi per un secondo di dove ero e perchè, il vagito di un bimbo me lo riconsegnava a braccia aperte, con un sogghigno.

L’ostetricia, e quel lungo corridoio color verde vomito, i bagni eternamente pieni di donne, che capivano, ma che non potevano né sapevano consolare. L’ostetricia che mi costringeva a percorrere fino in fondo il reparto maternità per andare negli altri bagni, e passare davanti a fiocchi di nascita dove l’azzurro e il rosa si mescolavano fra le lacrime che appannavano i miei occhi.
Li ho detestati, quei fiocchi.
Il mio non sarebbe stato mai attaccato.
Ho detestato quelle famiglie.
La mia non ci sarebbe stata.

Immorale?
Può essere, ma un cuore spezzato può anche essere perdonato e capito.

Mi ci sono voluti mesi per uscirne, avevo un buco nel cuore e mi ci ero rifugiata.
Ci sono voluti cinque anni per ritrovare la serenità necessaria a ricercare dentro di me la spensieratezza di quei vent’anni, la voglia di ritrovare quello status e riviverlo con la stessa partecipazione, con la stessa gioia, senza la paura di ritrovare sul mio cammino il fallimento dell’opera.

Sono passati undici anni, il mio bimbo mai nato è ancora vivo dentro di me, è parte di me.
Ma ho fatto un buon lavoro, sono riuscita ad eliminare quella seconda definizione di aborto.

Non è una colpa, non è un fallimento, non è colpa nostra, è solo destino. Avverso, malevolo, che fa urlare di rabbia.

Viviamo rassegnate a qualcosa che è più grande di noi.
Aspettiamo con fiducia l’alba di un giorno nuovo.

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