Zambia, capitolo 1: La decisione

maria-2-contrastataIl viaggio iniziò il 21 marzo 2006.
Anzi, no. Iniziò molto prima. Di preciso non so quando.

Però so che c’è stato un momento in cui mi sono resa conto che un giorno avrei lasciato tutto per un bel po’ di tempo: è stato in Brasile, verso la fine del tirocinio svolto con i bambini di strada. Ero seduta sul letto a castello scricchiolante, sotto la zanzariera, e dissi alle mie tre compagne di università: “Questa è la mia vita, questo è quello che voglio fare.”
E mentre lo dicevo mi emozionai.
Era un pensiero che mi aveva sfiorato spesso, e qualche volta anche invaso, durante i mesi appena vissuti, mentre giocavo coi ragazzi e mentre camminavamo per la favela, ma era la prima volta che lo dicevo ad alta voce, a me stessa e agli altri.

Capii che da lì non si tornava indietro, anche se da quel momento prima della vera partenza passarono quasi quattro anni.
In mezzo ci furono il ritorno in Brasile con il mio futuro marito, l’iscrizione al corso biennale dello SVI*, il percorso insieme… e poi il nostro matrimonio e il “viaggio di nozze” in Congo e Burundi.

Il mio primo impatto con l’Africa fu, se proprio vogliamo metterla giù dura, il peggiore possibile.
Il Congo me lo ricordo tetro, col cielo sempre coperto, umido, pesante. Ostile. E pericoloso, cazzo.
Era in piena guerra civile: c’era il coprifuoco e oltre le 18:00 non si poteva stare fuori.
La sensazione era di minaccia costante: la gente ci guardava sospettosa; alcuni uomini per strada ci insultavano perché i bianchi lì sono associati all’ONU che ne ha fatte di cotte e di crude; giravano soldati poco più che bambini armati fino ai denti. Ricordo che un giorno io ed altri tre o quattro ragazzi stavamo tornando a piedi verso la casa dove alloggiavamo quando Piero, il prete che ci accompagnava, ci disse: “Ragazzi, da quel palo in avanti dovete correre: non fermatevi per nessun motivo finché non ve lo dico io, andate più veloci che potete.” Era una zona in cui sparavano da un edificio all’altro.
Non era la prima volta che vedevo la fame e la miseria, ma Cimpunda, la bidonville dove avevamo organizzato un grest e dove dormivamo, sembrava un girone infernale: la gente viveva stipata in baracche costruite con sacchi dello sporco, pezzi di lamiera e qualche asse sul pendio di una montagna scoscesa, polverosa quando per alcuni giorni non pioveva, fangosa quando la pioggia scendeva a catinelle e creava vere e proprie cascate nei sentieri ripidi. Nello spazio di pochi metri quadrati dormivano famiglie con sette, otto, nove bambini, tutti ammassati.

Io e Mauri, tornati da quell’unica, intensissima e sconvolgente esperienza di Africa, fummo chiamati a decidere se accettare lo Zambia come paese in cui svolgere il nostro mandato di volontari per i successivi tre anni. Se non fossimo stati più che convinti, il Congo ci avrebbe fatto subito desistere. Evidentemente era una prova. Sì, perché credo che la Vita non ci metta niente davanti agli occhi per caso.
Accettammo pensando a quel fango e a quella disperazione. E a quegli occhi, a quegli occhi…

Era da mesi che aspettavamo. Tutti erano sulle spine per quello che, scherzosamente, al corso chiamavamo il “totopartenze”: quali progetti erano scoperti? Quanti volontari avevano dato la disponibilità a partire e quanti ne servivano? Noi eravamo i super-candidati per Venezuela o Brasile, dove generalmente venivano inviate le coppie.

La domanda fatidica arrivò una sera d’autunno. “Ragazzi, che ne dite dello Zambia, assieme a Giovanni?”
Oddio, come, niente Sudamerica?
Quello che ci stavano proponendo era un progetto nuovo da avviare, di cui non sapevamo niente. Anzi, di preciso non sapevamo nemmeno dove fosse, lo Zambia!
Beh, sapevamo che era in Africa… eravamo pronti a rivivere quelle situazioni? Ancora non sapevamo che lo Zambia è l’estremo opposto del Congo: luminoso, gioviale, sicuro. Nella nostra testa l’Africa era tutta come l’avevamo vista un mese prima.
Eppure non ci sfiorò nemmeno l’idea di rifiutare.
Eravamo euforici: ricordo che i giorni seguenti camminavo a due metri da terra.
E poi c’era anche il fatto che saremmo andati con Giova, che aveva frequentato il corso assieme a noi e con cui avevamo legato tantissimo. Non avremmo potuto desiderare un’équipe migliore.

Ricordo poco del periodo che intercorse tra quella sera e la partenza, cinque mesi dopo: tutto era orientato a quel momento.
Ricordo gli incontri allo SVI, con la commissione che seguiva il progetto.
Ricordo l’incontro con Maria, la signora burundese con cui avremmo lavorato fianco a fianco per tre anni e che ci avrebbe fatto da mamma, sorella e amica, che era venuta a Brescia per una serie di testimonianze.
Ricordo le lezioni intensive di Ricerca-Azione che ci faceva Mario, il nostro formatore, a casa nostra, in cambio di una cenetta e una bottiglia di vino.
Ricordo il momento in cui dicemmo della partenza ai nostri genitori…

Ricordo che in quei mesi, in cui spesso ci trovammo a sostenere le ragioni per cui partivamo con chi era scettico, con chi ci considerava degli svitati o degli idealisti con la testa tra le nuvole, con chi credeva che il nostro fosse solo un capriccio o semplicemente non capiva una scelta così radicale, mi resi conto di dov’era il mio posto: di fianco a Mauri.
Ogni minimo dubbio scompariva se giravo lo sguardo e trovavo il suo.

Un pomeriggio lo guardavo impalato, in mezzo ad un centro commerciale, e ridevo tra me e me.
Saremmo partiti una settimana dopo ed eravamo andati lì a comprarci delle scarpe da ginnastica.
Stonava proprio con quello che c’era attorno: la gente gli sfrecciava intorno, elegantissima e alla moda, i carrelli e le borse piene di acquisti da sabato pomeriggio bresciano, tra le mani gelati e pizze.
Mauri invece sembrava teletrasportato da un altro pianeta: capelli lunghi e mossi, barbetta, cappotto del nonno Pino, marrone con interno di pecora, e sciarpa della pace attorno al collo. Noncurante di tutto sgranocchiava una mela.
Se ci ripenso ora, lo rivedo con un’aura attorno: “Mi sembri un disadattato” gli dissi ridendo, e gli buttai le braccia al collo, pensando che davvero avevo trovato la mia anima gemella.

Gli ultimi giorni in Italia li ricordo malinconici ma colmi di calore e tranquillità.
Avevamo già lasciato la casetta che affittavamo a Desenzano e inscatolato la nostra vita per la prima di quella che si sarebbe poi rivelata essere una lunga serie di volte, e ci trasferimmo a casa dei genitori di Mauri.
Dopo settimane folli fatte di cene con amici e colleghi, passaggi di consegne al lavoro, vendita della macchina e tanta burocrazia, finalmente potemmo stare tranquilli: ci restavano tre giorni da dedicare alle nostre famiglie e ai nostri amici più intimi, che ci si strinsero intorno come una sciarpa morbida e rassicurante.

Stetti molto in silenzio con me stessa. Dubbi? Nemmeno uno, mai. Paura? Non lo so. Forse, ma non l’avvertivo.
Mi sentivo sospesa tra due mondi, in un limbo: il mio passato era chiuso nelle scatole; il mio futuro era a un passo da me eppure mi era completamente ignoto.
Non mi era mai capitato di non riuscire ad immaginare dove avrei dormito per i prossimi anni, chi sarebbero stati i miei amici, come sarebbe stata la mia routine, il mio lavoro, il mio svago. Come sarebbero stati il cielo, le nuvole, l’odore dell’aria.
Non c’era un solo elemento di cui fossi vagamente a conoscenza. Sapevo solo cosa portavo nelle mie due valigie, chi erano i miei compagni di viaggio e chi ci avrebbe accolti.
Non partivo per una vacanza, né per una delle mie tante esperienze mordi-e-fuggi tra le Ande o nelle colline burundesi.
Partivo per una vita di cui non sapevo assolutamente nulla. Un tuffo nel vuoto.

Finalmente il 21 marzo arrivò. All’aeroporto c’erano tutti: i miei genitori con mia nonna, i genitori di Mauri, i miei cognati, i genitori di Giovanni, i suoi fratelli e la sua bellissima fidanzata, sorridente anche in quell’occasione.
A parte lei piangevano tutti, papà compresi. Chissà cosa passava loro per la testa. Chissà quanto timore, quanta sofferenza quanta preoccupazione: adesso che sono madre lo posso capire.
Eppure la mia, di testa, era in modalità-automa. Mi ricordo sorridente e molto tranquilla, come se partissi per una settimana.

Ciao mamma, ciao papà, ciao nonna. Sì, sto attenta. Certo, vi chiamiamo quando arriviamo.
Arrivederci Italia.
Addio vita conosciuta, addio sicurezza, addio noto.
Addio, bambina.
Benvenuta, donna.

*SVI = Servizio Volontario Internazionale

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