L’infanzia negata

L’infanzia negata
(da una favola antica ad una storia moderna)

2444333525_cc8045b8c2mod.jpgI due giovani struzzi erano disperati.
Ogni volta che si mettevano a covare le uova, il peso del loro corpo le rompeva.
Un giorno decisero di andare a chiedere consiglio ai loro genitori, che abitavano dall’altra parte del deserto. Corsero per molti giorni e molte notti e finalmente arrivarono al nido della vecchia madre.
"Madre", dissero, "siamo venuti a chiederti come possiamo fare per covare le uova. Ogni volta che ci proviamo si rompono."
La madre li ascoltò poi rispose:
"Ci vuole altro calore"
"E quale?" domandarono gli struzzi.
"Il calore del cuore. Voi dovete guardare le vostre uova con amore, pensando alla creatura che vi dorme dentro, lo sguardo e la pazienza lo risveglieranno".

Gli struzzi partirono, e quando la femmina ebbe deposto un altro uovo si misero a guardarlo con amore, senza perderlo mai di vista. Passarono molti giorni; quando ormai erano allo stremo delle forze, l’uovo incominciò a cigolare, si incrinò, si ruppe e una piccola testa fece capolino dal guscio.

Da Il calore del cuore di Leonardo da Vinci.

La lettura di questa favola, scritta dal Genio tra tardo medioevo e rinascimento, mi ha stupita e incuriosita, mi sono chiesta quanta importanza avesse il bambino medioevale e che ruolo ricoprisse tra le priorità sociali del tempo. Considerando che, in quei secoli, la vita aveva un bassissimo valore, il cimentarsi nella scrittura favolistica mi è parsa una contraddizione tale da esortarmi ad approfondire il tema.

Nel medioevo l’infanzia fu negata.
Negata da un complesso intrecciarsi di schemi ideologici.
Negata dai pregiudizi, dalle concezioni religiose e filosofiche, così come da fattori materiali, pragmatici e sociali.
Questa fase della vita era considerata una sorta di luogo simbolico dell’imperfezione, il punto più lontano da quella congiunzione con Dio che, per un cristiano, doveva rappresentare la vera nascita.

Questa visione negativa fu fortemente influenzata dalle teorie di S. Agostino, tese a svalutare le diverse età della vita a favore di un "progetto" per il quale l’unica dimensione temporale che contasse era l’eternità, mentre il tempo terreno era privo di valore.
La società del tempo concepiva l’uomo in una duplice e contraddittoria natura: da una parte l’individuo come depositario del patrimonio divino, dall’altra l’uomo come autore del peccato originale.

L’infanzia, in questa visione, oscillava tra la rappresentazione sacrale della nascita di Gesù e l’espressione della viziosità della natura umana.
Gli adulti dell’epoca non sentivano alcun impegno emotivo e morale nei confronti dei più piccoli. Visto l’alto tasso di mortalità si cercava in genere di avere più figli possibili nella speranza che, due o tre "buoni eredi", sopravvivessero.

La donna medioevale era prima moglie e poi madre, limitata nella sua veste di gestante di eredi, la sua condizione abituale era la gravidanza. L’intervallo tra una gravidanza e l’altra oscillava in media tra i 18 e 21 mesi per tutta la durata dell’età riproduttiva della donna.

In questo quadro mesto, anche l’allattamento era visto spesso con diffidenza, poiché il latte era considerato sangue mestruale sbiancato, e dunque impuro. Questa teoria si basava sugli "studi" di Galeno, il quale ipotizzava un collegamento tra utero e mammella, nel cui lungo decorso il sangue si trasformava in latte. Come risulta ovvio, i meccanismi ormonali erano completamente sconosciuti.

Il baliatico era molto diffuso, specie tra i benestanti, sia per la necessità di concepire più figli possibili, sia per la visione della Chiesa che considerava peccato mortale i rapporti sessuali durante l’allattamento.
Tutto ciò accadeva prevalentemente nelle classi aristocratiche e mercantili. I neonati venivano mandati presso una balia in campagna, ritenuta zona salubre, anche se i dati ci dicono che un quarto dei bambini affidati alle balie moriva presso la nutrice.
I "diari fiorentini" ci raccontano altresì che la vita di questi figli era segnata da un altissimo tasso di mortalità anche oltre lo svezzamento: il 45% di loro non raggiungeva i 20 anni.
I maschi venivano spesso poi affidati ai monasteri seguendo la pratica dell’oblazione, per cui erano considerati come offerte alla chiesa. Le femmine, alle cui madri era vivamente consigliato di dar loro da mangiare solo lo stretto necessario, venivano date in matrimonio giovanissime, tra gli 8 ai 12 anni.

Nei ceti artigiani e fra contadini il baliatico non era diffuso, i figli restavano con le madri che ne diventavano uniche educatrici, come dimostrano le storie delle "botteghe genovesi".
Venivano allattati lungamente (si pensi che lo svezzamento aveva inizio dopo il primo anno di vita e non veniva completato prima dei tre anni) e per capire quanto fosse "sano" il latte, anziché testarlo con la normale crescita dell’infante, si eseguivano due operazioni.
La prima era la prova dell’unghia: si faceva scivolare sull’unghia una goccia di latte materno, che doveva conservare la forma originale anche se si fosse agitata la mano. La seconda era la prova dell’oftalmoreazione: se il latte sprizzato negli occhi provocava irritazione era di cattiva qualità.
Molto curioso uno "studio" fatto sulle balie di diverso colore di capelli, che concludeva che era da privilegiare il latte nutriente delle brune, seguito da quello delle bionde, mentre era assolutamente da evitare quello delle rosse.

Questa visione iniziò a essere abbandonata a cominciare dal ‘700 e proseguì per tutto l’800 con alcuni studi sul latte materno umano e animale che stabilirono l’insostituibilità del nutrimento naturale. Si scoprì inoltre che il latte organicamente più simile a quello umano, sebbene più povero, era quello d’asina.

Uno dei paladini più autorevoli del pensiero illuminista, che sposò la battaglia dell’allattamento materno, in contrasto soprattutto con l’uso del baliatico, fu J. J. Rousseau (l’Emilio ne fu la più alta espressione) e tanto fu influente la sua battaglia, che nel 1874 l’Assemblea Nazionale emanò una legge che ne promuoveva l’uso, detta appunto legge Rousseau.
Furono anni di grandi contrasti in relazione all’educazione dei bambini, da una parte i seguaci di Rousseau, che riconoscevano l’importanza del bambino come valore in sé e non come mezzo verso un fine, dall’altra quelli di Locke, che consideravano invece il bambino una "tabula rasa", una creatura da formare, un vaso da riempire, al quale non andava riconosciuta una valenza intrinseca.

Il confronto del pensiero filosofico diede luogo a un grande interesse verso l’infanzia, risvegliando le coscienze e focalizzando l’attenzione sul bambino. Fiorirono studi pedagogici, la ricerca e la produzione letteraria si orientarono anch’esse sull’universo bambino.

Sì, il medioevo negò l’infanzia.
I bambini non esistevano come oggetti di conoscenza, di discorso, di teoretica.
Per fortuna quei tempi di disconoscimento sono finiti, anche se in diverse parti del mondo resta difficile, per molti bambini, vivere la "puerizia". Oggi i nostri figli sono amati, è rispettato il loro tempo e il loro modo di essere bambini. I bambini sono aiutati nei percorsi di crescita e hanno assunto un ruolo di assoluta centralità nell’universo Famiglia.

Ho aperto questo mio scritto con una favola antica, voglio chiuderlo con una storia moderna di un grande pedagogista dei nostri tempi, Mario Lodi.
Lodi ha il merito di aver inquadrato, osservato e raccontato il suo amore per il mondo dell’infanzia, frutto delle sue osservazioni, tramite i racconti dei bambini stessi.

Dedicata ai bambini di ieri di oggi e di domani.

C’era una volta, si fa per dire, un gruppo di bambini e bambine che erano venuti al mondo nello stesso paese, chi un po’ prima chi un po’ dopo, mentre la terra stava compiendo lo stesso giro intorno al sole.
Per questo li misero insieme nella stessa classe e li affidarono ad un maestro. Una specie di famiglia con 18 bambini.

Il maestro li faceva parlare e li ascoltava attentamente e un giorno disse: "Io da voi imparo ogni giorno tante cose."
Ma loro pensavano che fosse uno scherzo perché la gente crede che i maestri ci siano per insegnare, non per imparare. Però un poco ogni giorno, si accorsero che insieme al maestro scoprivano sempre qualcosa di nuovo della vita di ognuno: era come un quadro che diventava sempre più ricco e bello, una pennellata dopo l’altra.
A scuola certe cose non le capivano tutti subito.
Allora fecero un patto: chi sapeva o capiva subito una cosa diventava maestro e la insegnava a chi non aveva capito.

In questo modo scoprirono che nessuno sapeva fare bene tutto e che tutti potevano essere, in un certo senso, maestri degli altri.
Anche il maestro certe cose non le sapeva fare bene come i bambini e in questo senso anche lui diventò scolaro degli scolari.

Da questo gran parlare, si scoprì che tutti i bambini erano diversi, anche se avevano la stessa età e pressappoco la stessa altezza.
Una volta fecero una prova: si misero a disegnare una rosa che era nel vaso davanti a loro. Era la stessa rosa, ma nessuno l’aveva disegnata uguale.
Loro usavano modi diversi di rappresentare le cose, come se avessero occhi molto differenti: chi disegnava in modo quasi reale, chi usava il colore a seconda dei sentimenti, chi addirittura non pitturava affatto le cose che vedeva, ma quel che sentiva dentro.
Impararono così che nessun uomo è uguale a un altro e che tanti bambini diversi che lavorano insieme fanno un gruppo con tante idee, quindi un gruppo vivace, simpatico, dove si discute e a volte si litiga, ma poi il lavoro realizzato insieme diventa bello perché porta l’impronta del meglio di ognuno.
Pian piano accade che lavorando in gruppo, quello che faceva uno era come se fosse di tutti perché quando si è molto amici e si parla le idee che nascono è difficile che siano al cento per cento di chi le esprime, perché sono il prodotto di tanti stimoli.
Le diversità dei bambini erano una più bella dell’altra
.

Da La mongolfiera di Mario Lodi.

Bibliografia:
Il bambino medioevale, Angela Giallongo, Edizioni Dedalo, Roma, 1990
Alimentazione e malattie infantili nel medioevo, Luisa D’adami, Edizioni Atheneum, Firenze 2005

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