Ricordo la prima volta che lo attaccai al seno, la sua boccuccia iniziò a succhiare delicatamente sorprendendo anche i medici poichè nacque di 33 settimane (con un buon peso, superiore ai 2,5 kg).
Mi chiedevo se ero io strana che non sentissi fastidio o dolore come le altre mamme o se era lui troppo piccolo e debole per succhiare energicamente.
La poesia di quei momenti nella tranquilla nursery del reparto di patologia neonatale, con lui accoccolato tra le mie braccia, attaccato al mio seno, con davanti il poster di un dalmata che allattava i suoi numerosi cuccioli, è ancora fresca. In quella particolare intimità ho trovato il senso di essere donna, il vero senso dei miei seni e del mio utero che sentivo vibrare mentre lui succhiava in quegli attimi senza tempo e senza spazio.
Furono però le parole dei pediatri a interrompere questo “incantesimo”: mi dissero che non dovevo stancarlo perché era piccolino e prematuro, che non dovevo tenerlo attaccato al seno per più di cinque minuti per parte.
Quando era il momento di staccarlo forzatamente sentivo dentro di me un’ondata di inquietudine, mi sembrava una forzatura innaturale e quando non lo facevo io ci pensava il suo papà, che forse ancor più intimorito dalle parole dei medici cronometrava i tempi dettati da loro ed effetuava la doppia pesata.
La produzione del mio latte per forza di cose non aumentava e lentamente passammo all’aggiunta di latte artificiale fino a sostituire completamento quello materno.
Questo passaggio l’ho vissuto con sentimenti ambivalenti. Da una parte una sensazione di dispiacere e dall’altra di sollievo, sollievo per la fine della tensione della doppia pesata, della misurazione della quantità del mio latte, che in qualche modo nel mio intimo pesava la mia capacità di essere madre, sollievo per non essere più responsabile direttamente dell’alimentazione e della crescita di mio figlio.
Con il secondo figlio sapevo che il mio allattamento doveva essere diverso, sapevo che l’avrei allattato io, che avrei seguito l’istinto, che mi sarei affidata completamente alla natura.
Così fu per circa quattro mesi, anche se una leggera ansia di prestazione, vista la prima esperienza, mi ha sempre accompagnato.
Non ascoltai la pediatra quando mi disse che otto poppate erano troppe e avrei dovuto provare a dare un’aggiunta all’ultima serale.
Ho il piacevole ricordo della sensazione di riempimento dei seni, del calore che scorre, del compiacimento dimostrato dagli occhietti del mio bambino che sempre seguivano la stessa espressione appena sentiva arrivare soddisfatto il latte.
Questa seconda avventura finì un po’ presto, forse questa volta per le parole non dette.
Presi una brutta influenza e il mio latte iniziò a scarseggiare pesantemente, iniziai ad avere paura, quella paura atavica che colpisce sempre le mamme, la paura che il bambino non mangi abbastanza e non cresca.
Ammetto che ero disinformata, non sapevo che avrei potuto rivolgermi alla lega per l’allattamento per avere consigli su come proseguire anche in queste fasi dove l’offerta non risponde alla domanda.
Iniziai a dare l’aggiunta di latte artificiale e piano piano il passaggio fu completo.
Provai esattamente lo stesso ambivalente sentimento, ma questa volta lo accettai meglio.