Lettino o lettone?

Buongiorno dottoressa,
come ha sottolineato più volte nelle sue bellissime risposte, l’istinto materno è la miglior cosa da seguire, però vorrei chiederle la sua opinione, personale e professionale , su una questione delicata: cosa pensa del metodo Estivill?
E della condivione del letto matrimoniale?
Grazie
Simona

Cara Simona,
ora ti racconto una piccola storia: quando mi sono laureata, nel lontano 1972 (chissà, forse alcune di voi mamme non erano ancora nate!) mi aggiravo per le larghe antiche corsie dell’università con le tasche del camice gonfie di fogli, foglietti, appunti e libri tascabili di diagnosi e terapia: un misto di insicurezza, voglia di raggiungere la perfezione e paura di sbagliare. Poi un giorno, causa un favorevole gioco di luci su una porta a vetri mi sono specchiata e mi sono trovata goffa e sgraziata. All’epoca avevo poco più di 25 anni e al mio aspetto tenevo non poco. Ho cominciato quindi a pettinarmi meglio e a svuotare le mie tasche di tanto cartaceo.
Ma, non volendo e non sentendomi del tutto pronta per ragionare solo con la mia testa, prima di riporre gli appunti in un cassetto e i libri sullo scaffale, per una settimana ho trascorso le mie sere a prendere appunti per salvare le cose più importanti su un microscopico quadernetto al quale, per renderlo più piatto, avevo strappato almeno la metà delle pagine. Confesso che è stata una fatica immane scegliere cosa tenere e cosa scartare. Ho dovuto superare le mie insicurezze e convincermi che ormai per molte valutazioni ero pronta a camminare con le mie gambe e a ragionare con la mia testa, ho dovuto imparare a credere che le mie mani fossero perfettamente in grado di capire con la palpazione quello che succedeva sotto la pelle di un bimbo, che le mie orecchie fossero in grado di ascoltare le meravigliose canzoni dei piccoli cuori, dei polmoni e degli intestini sempre in subbuglio dei bimbi che visitavo, che la semplice trazione delle mie braccia fosse sufficiente per valutare il tono muscolare dei piccoli. Via allora tutti gli appunti di semeiotica (la disciplina che ti insegna a far diagnosi valutando i sintomi), via i tascabili di pediatria e di infettivologia, via gli appunti sugli schemi alimentari delle varie età.
Sì invece a cosa? Alle cose strettamente tecniche: nomi e dosaggi dei farmaci più importanti, nomi di farmaci equivalenti in caso di allergia o indisponibilità dei precedenti. Si quindi a tutto quello che era fondamentale certo, ma non essenziale alla comprensione profonda del fenomeno.
Da quel momento, e pensa, all’inizio spinta principalmente da una velleità estetica, ho capito la differenza tra informazione e  cultura. Ho capito che il vero sapere, quello che trasforma un uomo colto in un uomo saggio, passa si attraverso i libri, ma non si ferma lì, cerca il riscontro, l’esperienza, è pronto alla messa in gioco, alla critica, all’autocritica, accetta e sopporta l’umiliazione dell’errore pur di arrivare all’unica verità possibile che è data appunto dall’esperienza, dalla vita vissuta.
E per tornare alla tua domanda: io non amo Estivill ma rispetto le sue teorie perché partono dall’idea di aiutare il bambino a trovare la sua autonomia psicologica, la capacità di inventare da solo gli strumenti necessari per consolarsi, inventare strategie. Quindi penso che, a modo suo, Estivill creda nelle capacità dei bambini. Ma penso anch’io che il suo metodo, così come lo descrive, sia troppo rigido, troppo schematico, troppo protocollare.
Il problema qual è? Secondo me quello di voler rendere divulgativi degli strumenti che, per essere applicati, devono passare attraverso il vaglio di persone esperte del problema. Tra il leggere il libro di Estivill e applicarlo alla lettera o leggerlo e rifiutarlo completamente facendo dormire il bambino con i genitori fino a 10 anni e oltre (non ridere, succede anche di peggio quando certe mamme si ostinano ad ascoltare solo il cosìdetto istinto!) c’è la via di mezzo della saggezza e della riflessione che valuta e decide caso per caso. Il passaggio tra la completa simbiosi con la madre e l’indipendenza, non a caso può durare da uno a più di tre anni senza che vi sia materia per pensare a qualche patologia. Non a caso, per esempio, la scuola materna non inizia prima dei tre anni compiuti. In questi tre anni si mettono in gioco tante cose e l’intreccio tra tempi maturativi del bambino e influenze ambientali rende il tutto molto poco schematizzabile.
Io, come pediatra, non solo non sono abituata a parlare ad una platea pontificando e generalizzando, e tantomeno schematizzando. Preferisco affrontare un singolo problema e, assieme alla mamma e meglio ancora, a entrambi i genitori, trovare la soluzione quanto più possibile giusta per quel caso. Naturalmente per trovarla si parla, si discute, si ascolta, ci si confida, e da tutto questo comunicare si riceve e si trasmette cultura. Non amo le lezioni a priori, amo i casi umani che diventano occasione di riflessione continua e pretesto, magari, perché no? per diffondere cultura.
E chissà se in questa mia risposta-non risposta c’è…più risposta che se avessi risposto!
Daniela

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