Elettra: un parto violento per un arrivo soffice

elettra.jpgElettra: un parto violento per un arrivo soffice

13 gennaio 2009, ore 22:00

Distesa nel letto, demoralizzata per un’altra giornata passata ad attendere il fatidico momento giusto, cerco conforto da un’amica via SMS.
Colgo al volo il suo consiglio e mi faccio preparare da Fabrizio una calda tisana rilassante.
Mi addormento, effettivamente rilassata.

14 gennaio 2009

Risveglio brusco all’una e mezza: ci siamo!
Il tempo di una doccia e di chiamare la nonna per Glauco e via, si parte.
Arriviamo in ospedale alle tre.
Mi attaccano al monitoraggio per mezz’ora.
La dottoressa mi visita e, rivolgendosi all’ostetrica, sentenzia: "Prepara pure la cartella, siamo già a 8-9 centimetri!"
Le contrazioni effettivamente sono belle forti e ravvicinate, ma non credevo di essere così a buon punto.

Stupita ma contenta, comincio a rispondere malvolentieri a una raffica di domande su gravidanza e dintorni.
Le contrazioni incalzano.
L’ostetrica, giovanissima, della quale non ricordo nemmeno il nome, ci accompagna verso le sale parto.
Mentre camminiamo lei continua a parlare di fogli, di ricovero, di quello che avremmo dovuto fare noi genitori il giorno dopo, come se il parto fosse l’ultimo dei suoi pensieri.

Notte movimentata: tutte le sale parto occupate.
Tutte tranne quella rosa.
Se fossero state tutte libere avremmo scelto proprio la stanza rosa, di fronte alla stanza azzurra dove nacque Glauco.
Mi convinco che la stanza rosa stava aspettando noi.
Mi infilo svelta la camicia da parto.

I dolori sono fortissimi.
La pausa tra l’uno e l’altro, brevissima.
Fabrizio agitato, spiazzato dalla velocità con cui procede tutto, non sa cosa fare.
Reclamo un massaggio dei suoi alla schiena, mentre ho i dolori, ma mi accorgo subito che mi infastidisce essere toccata.

Si offre di darmi la mano durante le contrazioni, come aveva fatto sino a quel momento, ma sento che non serve più, che devo fare da sola.
Sembro un animale, una gatta che deve partorire.
All’arrivo della doglia mi alzo dalla sedia, giro come una trottola per la stanza, mi piego, mi appoggio al letto e respiro profondamente, roteando il bacino.

L’ostetrica è inesistente, anzi, fastidiosa, invadente.
Durante le minuscole pause che mi permettono di riacquistare le forze, si presenta con fogli su fogli da firmare: "Ti dispiace se ti chiedo una firma qui? E una qui?"
L’avrei potuta insultare, ma lì per lì, mentre metto queste benedette firme, l’unica cosa che riesco a pensare è che un giorno, probabilmente anche lei diventerà mamma; allora capirà e sarà tutto diverso.

Intanto si avvicinano le cinque e sento una gran voglia di spingere.
Il sacco è ancora integro e teso, troppo teso.
Per facilitare le spinte, l’ostetrica mi rompe le acque.
Mentre quel caldo liquido sgorga fuori penso alla mia bimba, a Elettra, che sta affrontando la mia stessa fatica e sorrido, pronta ad aiutarla.
Iniziano spinte violentissime e lunghissime.
Mi sento in balia degli eventi, come se niente dipendesse da me. Tutto sa di miracolo. Il miracolo della natura.

Esce la testa: attimi di smarrimento.
Istintivamente stringo quella testolina, come se volessi riportarla dentro.
Poi sento la dottoressa, arrivata da pochi minuti, che mi grida: "No, non stringere, spingi! Ultima spinta, vai!"
Mi riprendo, spingo e finalmente quel corpicino che srotola fuori, quella sensazione di svuotamento, quei secondi infiniti in cui non la senti piangere e guardi preoccupata il papà, che guarda lei.

Ore 5 e 7 minuti.

Piange. Piango.

Avvolta in un lenzuolino bianco, adagiata sul mio petto, Elettra si calma al suono della mia voce.
Mi guarda con gli occhioni spalancati, aperti sul mondo rotondo.

Guardo papà Fabri ed è meraviglioso, ancora una volta, scorgere nei suoi occhi le mie stesse emozioni, la mia stessa gioia.

Insieme guardiamo lei, frutto dei nostri desideri, del nostro amore.
Le offro il seno e lei lo annusa, lo lecca, lo cerca.
La natura continua a fare il suo corso.

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