Ciao, Capitan Fratellino!
Volevo regalarti una storia, quella della tua nascita.
Non è di cimento, natura, trionfo del grido di chi si fa madre.
È una storia ovattata, tranquilla, dolce.
Il guaio è che tre anni fa, nel tepore dell’estate, ho avuto il gelo dell’angoscia durante il travaglio per il cucciolo che ti ha preceduto fra le mie braccia.
Ebbene, nella pioggia e nel grigio di questo febbraio, invece, ho voluto che il tuo biglietto d’ingresso alla vita fosse di carta colorata; che il mio ricordo fosse pieno di cose belle e senza dolore.
Nella sala d’attesa del Grande Ospedale mi ero rassegnata al ritardo, e confesso che me lo godevo pure. Le mani sulla pancia, tonda a luna piena per l’ultima volta, ero incantata dai tuoi guizzi dentro di me e dai miei sogni su di te, prossimi a scontrarsi con la realtà.
Dovevamo aspettarcelo, che se il Grande Ospedale ti dice: “Venite alle sette, alle otto e mezza si nasce”, è una bugia.
Alle undici siamo ancora lì, per giunta ci passa davanti il “tour” del corso pre-parto. Ci sono un’ostetrica-cicerone e forse una dozzina di coppie di futuri genitori trepidanti. Si fermano vicino alla sala d’attesa. L’ostetrica ci indica e descrive le procedure del cesareo programmato. Mi sento un po’ un pesce nell’acquario, davanti all’occhio attento dei visitatori, ma tant’è… Migrato altrove il “tour”, guardo l’orologio, mando qualche sms, sbadiglio, torno a coccolare la curva sotto al maglione nero ove tu sei nascosto.
Ancora non ci credo.
Sapere con certezza come e quando (disguidi da Grande Ospedale a parte) nascerai, elimina molte paure, ma lascia un’inquietudine, uno stupore che non ci si aspetta. È come se qualcuno ti avvertisse: “Domani, proprio domani, è giorno d’epocale rivoluzione, preparati”. Ed ecco, alla rivoluzione ci arrivi. Impreparata. E quel benedetto/maledetto ritardo finisce per darti fiato. Suppongo di dover ringraziare il ritardo, infatti, se quando vengono a chiamarmi ho solo un vago batticuore. Avanzo senza vacillare.
L’ostetrica assegnatami è una signora gioviale, con occhi ridenti.
Mi prepara in una stanza in fondo al corridoio, e a sorpresa mi chiede: “Lei è parente del maestro P., per caso?”.
“Sì, è mio padre!”.
Emerge quindi, nell’anonimato del Grande Ospedale e della Grande Città, un’insolita simmetria: l’ostetrica è la madre di un’allieva che mio padre ha accompagnato con passione professionale fuori dalle elementari; mio padre è il nonno del neonato che lei accompagnerà con passione professionale fuori dal Mare Amnios. Lei è una fan del mio papà. Così, mentre mi depila il pube e mi aiuta a spogliarmi, operazioni di per sé imbarazzanti, prende a darmi del tu e a chiacchierare amabilmente di cose a me note e care. La poca tensione rimasta si scioglie. Finchè salgo sulla barella. Mi portano via.
Bacio al volo in corridoio Gianluca, che mi stringe forte la mano, con la fede e il mio anello di fidanzamento in custodia sul proprio mignolo.
In una sala attigua a quella operatoria l’ostetrica, amichevole ma mai dimentica dei suoi compiti, mi spiega cosa accadrà, mi presenta l’anestesista, una signora materna e brizzolata, mi mette una flebo al polso. Un’infermiera, frattanto, mi fa domande da rilevazione statistica e, già che c’è, m’interroga sul tuo nome, mio Capitano.
Rispondo che ci sono varie ipotesi, ma prima voglio vederti.
L’infermiera e l’ostetrica sorridono. Si dimostrano meglio d’amici e parenti, che affettuosamente rompono le scatole per saperlo dal primo mese di gravidanza ahahahahah!
Per me era fondamentale non saperlo, al contrario.
E fra poco un nome l’avrai. Mi emoziona ignorare ancora quale.
È l’ora. Entro in sala operatoria.
Mi fanno sedere, piegare su un cuscino, reclinare le spalle. Ho il terrore di muovermi al momento sbagliato. Supplico: “Tenetemi ferma!!”. L’anestesista mi rassicura. Ha una voce profonda, è adusa alle paranoie delle pazienti. Tanto è vero che, praticando una spinale che non sento neanche, mi avverte che, se lo desidero, dopo l’intervento può somministrarmi un blando sedativo per farmi riposare. Deve essere il tipico antistress di chi non gradisce farsi aprire la pancia restando cosciente?
Eh, no, Capitan Fratellino! Io rifiuto! Voglio gli occhi aperti, il cuore in tumulto, le mani ben salde ad accoglierti dopo l’operazione, altro che dormire!
Mi attaccano al braccio privo di flebo l’apparecchio per misurare la pressione. Mi sdraio di nuovo, mentre un formicolio, un misto tra ghiaccio e fuoco, mi scende dalla schiena alla punta dei piedi. Muovo ancora le gambe, intorpidite. Un minuto dopo, l’anestesista m’invita a sollevare il bacino. Non ci riesco. Che buffo… il cervello mi ordina: muoviti! E i muscoli lo ignorano, ammutinati nel droga-party della spinale.
Alzano il sipario di un telo verde fra me e il pancione, a cui dedico un’ultima occhiata nostalgica. Spargono il disinfettante. L’ostetrica m’inserisce il catetere, procurandomi appena un lieve solletico.
Dopo il sipario, le luci.
Accendono un cerchio di lampade sopra di me. Sembra un sole, alla faccia della pioggia che batte dietro i vetri opacizzati. O magari sono io che voglio vedere a tutti i costi il sole sul tuo arrivo, Capitano, e sono felice, assurdamente incredula ma felice, di assaporare istante per istante quest’evento.
Finalmente, accompagnato da tre assistenti, fa il suo ingresso il chirurgo. È sui quaranta, aria disinvolta un po’ da sciupafemmine, cordiale con me e con le colleghe.
Le dodici e venti.
Ci siamo.
Arriva la carezza in punta di matita che è invece il taglio del bisturi.
Come nel primo cesareo, la sensazione nell’essere operata è un insolito premere e tirare privo di dolore. Identica. Sono io a essere diversa. Non sono esausta, traumatizzata da lunghe ore di travaglio, poco presente a me stessa. Sono lucida, serena, concentrata su di te, Capitan Fratellino, e sul nostro imminente incontro.
Oltre il telo sento commentare che il liquido amniotico è tinto. Ciononostante, dimostri di non avere tanta voglia di interrompere la permanenza in quel sinistro colore, tinto da chissà che cosa, che Gine Scrupolo e il suo ecografo non ha rilevato. L’ostetrica mi avverte che deve farmi una manovra. Mi preme con forza sulla pancia. Di quel movimento io percepisco solo un’eco lontana, poi una specie di strappo, un senso di vuoto, e sei tu… oh cielo sei proprio tu… un vagito gorgogliante, che, quando ti liberano le vie respiratorie si fa più acuto e prepotente.
Via! Togliete quel telo! Non vi sono più grata di celarmi il panorama operatorio, se non mi fate vedere il mio bimbo! Capitan Fratellino, dove sei? Stai bene? Vi prego… ditemi… sta bene?!
Il chirurgo risponde a tale domanda con uno scherzo.
“Signora, sta bene ed è… femmina!”.
Sta bene. Questo solo conta. Mi rilasso dietro al telo. Riesco persino a stare allo scherzo del chirurgo.
“Per la verità dovrebbe essere un maschio”.
Il chirurgo sentenzia faceto: “Con queste ecografie non ci casca più nessuna!”.
L’ostetrica, all’improvviso, appare al mio fianco.
Ti stringe al petto.
Sei tutto sporco e piangi.
Sei proprio tu? Sei nato da me?
Sono provvisoriamente annichilita.
Ti portano via.
Saprò poi che ti hanno fatto il bagnetto e ti hanno presentato al tuo papà.
Ti riportano poco dopo, mentre la mia operazione prosegue, strettamente avvolto in panni candidi. Ti avvicinano al mio viso.
Benvenuto, amore mio!
Non sto piangendo. La commozione mi schianta il cuore e tuttavia non piango, lasciandola lì a divorarmi invece di trovare uno sfogo. Forse perché avevo da tempo deciso di bandire le lacrime dalla tua nascita? Forse è il tuo faccino, ora calmo, a ipnotizzarmi?
Nel mio immaginario eri piccolo, scuro e incazzoso, per forzato contrasto con tuo fratello maggiore, grande, biondo e placido.
Sei piccolo, sì.
Sei minuscolo e indifeso, perso in quei panni bianchi. Quasi tremo quando oso baciare la tua pelle, un po’ seta e un po’ cartapecora.
Sei scuro, sì.
Di pelle e capelli. Scuro d’uno sguardo blu fondo, che incredibilmente mi appare antico, come se avessi già vissuto, e stessi contemplando dall’alto della tua saggezza la necessità di ricominciare daccapo.
Ma non sei incazzoso. Sei forte e tenero.
… Sei un Federico.
Ne sono quasi sicura.
Aspetta… ora ti bacio ancora, ti sussurro parole sconnesse, ti giuro che sei bellissimo, anche se è falso. Ti annuso. Tocco la tua guancia con la mia, sfioro i tuoi capelli fini fini.
Poi ci medito meglio, Capitan Fratellino, ma così, quasi a prima vista, ho trovato il tuo nome.
E, cosa assai più importante, a prima vista mi sono innamorata di te, senza rimedio e senza confini.
Quel che succede dopo, mentre tuo padre ti culla addormentato nella sala d’attesa del Grande Ospedale e dopo che mi confermano che sei sano, è marginale.
Il chirurgo si fa serio e s’industria a rimediare alle aderenze nel mio grembo, mi chiudono la ferita con filo di seta, l’anestesista e il suo sedativo se ne vanno e mi lasciano vigile.
Sono piena di te.
Della voglia di riaverti e di conoscerti.
Della felicità traboccante da ogni angolo del cuore.
Di un miracolo intatto, pur nella luce e nell’allegra leggerezza di questo parto.
Ne avrò il bel ricordo che sognavo..
Ora sei qui, mio piccolo Federico… secondo ma non meno infinito amore.