Buongiorno dottoressa,
vorrei chiederle un parere su una cosa che mi procura ansia: una mia cara amica ha scoperto dalle analisi del sangue della sesta settimana di gravidanza, di aver contratto la toxoplasmosi.
Lei ora è alla 13+4 ma le analisi le ha lette soltanto ora. Cosa comporta la toxoplasmosi in gravidanza, e intorno a quelle settimane? Il ginecologo le ha prospettato una possibile cura di antibiotici per tutto il resto della gravidanza, più l’amniocentesi per stabilire se il feto ha subito dei danni. Che danni può subire il feto? A che rischi va incontro la mamma?
La ringrazio anticipatamente.
La toxoplasmosi è una infezione (più precisamente una zoonosi, visto che il toxoplasma è un parassita) diffusissima che colpisce mediamente poco meno di un terzo della popolazione mondiale. Generalmente, quando colpisce un soggetto adulto sano con un sistema immunitario ben funzionante, essa decorre in modo asintomatico o con sintomi molto modesti come malessere generale e tipico ingrossamento di uno o più (solitamente uno) linfonodi ai lati del collo: pertanto non si prescrivono cure specifiche. Ma una donna gravida infettata può trasmettere l’infezione al feto con importanti conseguenze per il nascituro che potrà nascere con un ventaglio larghissimo di sintomi la cui gravità dipende essenzialmente dall’epoca della gravidanza nella quale si è manifestata l’infezione e dalla tempestività, idoneità e continuità della terapia che la gestante deve iniziare immediatamente a praticare fino all’espletamento del parto.
Anche nella donna gravida l’infezione può decorrere in modo asintomatico e la malattia, pericolosamente, non darebbe segno di sè se le moderne linee guida di gestione sanitaria della gravidanza non prevedessero il controllo mensile degli anticorpi antitoxoplasma fino al momento del parto in tutte le donne che, al momento della gravidanza, risultano essere prive di anticorpi specifici contro questa malattia.
Il toxoplasma può diffondersi per via ematogena e infettare il feto e questa possibilità, nelle donne gravide infettate e non trattate farmacologicamente in modo tempestivo, è tanto più probabile quanto più la gravidanza è avanzata. Per averne un’idea: nel primo trimestre di gravidanza, il feto ha meno del 25% di probabilità di infettarsi (ma se si infetta la malattia può decorrere in modo gravissimo); nel secondo trimestre, circa il 50% di probabilità (con sintomi, però, spesso meno gravi) e nel terzo trimestre, fino al 70% circa di probabilità (con sintomi sempre meno gravi). Una pronta e adeguata terapia riduce queste probabilità dellla metà e, anche qualora, nonostante tutto, il feto nascesse infettato, molto difficilmente presenterà sintomi clinici molto importanti: è più facile che nasca asintomatico, pur con la necessità di essere seguito nel tempo, almeno per tutto il primo anno di vita, ma meglio se fino al secondo anno, in modo molto attento.
Da qui l’estrema necessità di fare la diagnosi di toxoplasmosi in gravidanza nel modo più tempestivo e preciso possibile, con l’aiuto di precisi protocolli diagnostici da applicare a tutte le gravide (possibilmente anche a tutte le donne che, di lì a poco, desiderano o prevedono di rimanere incinte). La toxoplasmosi lascia una immunità permanente, quindi le donne che ad inizio gravidanza o al momento che si preparano per una gravidanza, presentano anticorpi antitoxoplasma non dovranno più essere controllate nel corso della gravidanza né sarà necessario che seguano le norme igieniche prescritte alle gravide non immuni.
Quando il toxoplasma è presente, i suoi antigeni sono reperibili in quasi tutti i liquidi corporei come sangue, urine, liquido cefalo-rachidiano e liquido amniotico. Per evidenziarli o evidenziare particelle del suo DNA, si usano metodi immunoenzimatici (ELISA) ormai molto precisi ed affidabili. Un test antigenico positivo indica che si è in presenza di infezione recente e risulta molto utile sia nel neonato che, prima della nascita, nel liquido amniotico del feto prelevato con l’amniocentesi, cioè in situazioni nelle quali il sistema immunitario ancora immaturo, sia del feto che del neonato, non sarebbe in grado di produrre anticorpi specifici in quantità tali da positivizzare le analisi volte alla ricera e al dosaggio degli anticorpi. Quando si utilizza il dye test, che si positivizza in presenza di parassiti vivi, esso è da considerarsi positivo se compreso tra 1/256 e 1/228,000.
In un adulto si scelgono metodi immunoenzimatici più semplici (IFA, ELISA, HIA) che si utilizzano, a volte, assieme, per escludere l’eventualità di risposte falsamente positive se si ci si dovesse basare su un unico metodo (alcune malattie che coinvolgono il sistema immunitario possono positivizzare falsamente le ricerche anticorpali).
La presenza di anticorpi specifici di tipo IgM indica che l’infezione è recente: essi iniziano ad evidenziarsi una o due settimane dopo l’inizio dell’infezione e possono mantenersi positivi, mostrando solo un lieve decremento, anche per mesi se non per anni: quindi, trovare IgM specifiche non sempre significa infezione recente, cioè in fase acuta. Un alto titolo di IgM può significare infezione acuta in fase iniziale soprattutto se associato ad un alto titolo di IgG dosate con metodica a immunofluorescenza o con dye test (maggiori di 1/1000). Quando si trovano IgM positive ma a valori bassi, solitamente si è in presenza di infezione accorsa vari mesi prima. È, pertanto, molto importante ai fini diagnostici, la scelta del metodo giusto di dosaggio delle immunoglobuline.
Le immunoglobulineG, invece, compaiono precocemente in corso di malattia e raggiungono il loro massimo dopo due mesi per poi diminuire gradatamente rimanendo, però, dosabili nel sangue molto più a lungo delle IgM. Le IgG, per questo motivo, significano, di solito, infezione lontana, spesso già superata, ma ritrovare un alto valore di una singola classe di IgG, per esempio solo IgG1, spesso significa infezione recentissima, in fase iniziale. Anche se non è consuetudine dosarle di routine, anche le IgA e le IgE aumentano in fase acuta di malattia. È possibile fare diagnosi sierologica di infezione materna quando si trovano IgM elevate (metodo ELISA, ISAGA) e se vi sono anche IgG elevate, la diagnosi di infezione recente in fase acuta è certa. Se poi si trovano anche IgA e IgE elevate, l’infezione, oltre che in fase acuta, è anche recentissima.
Ma come si fa la diagnosi di infezione intrauterina del feto?
Quanto detto finora fa capire come non sia facile, quando si trovano valori elevati di immunoglobuline, stabilire la data esatta di inizio malattia e, di conseguenza, stabilire il rischio che il feto ha di essere stato contagiato e, soprattutto, l’epoca di gravidanza nella quale è avvenuto il contagio. Questo mette in estrema ansia i genitori che, terrorizzati, possono decidere di ricorrere alla interruzione di gravidanza oppure, al contrario, vengono sottoposti a lunghe terapie potenzialmente tossiche, a volte, non necessarie.
Amniocentesi e prelievo di sangue fetale attraverso la puntura del cordone ombelicale guidata dall’ecografia possono portare alla diagnosi prenatale di toxoplasmosi fetale con una certa sicurezza. I campioni dei liquidi prelevati sono inoculati in cavie o in campioni di tessuti coltivati in laboratorio e, contemporaneamente, nel sangue prelevato dal cordone ombelicale, estrapolando soltanto il sangue fetale separandolo da quello materno, si dosano le IgM specifiche, i leucociti, le piastrine, alcuni enzimi come la latticodeidrogenasi e la gammaglutamiltransferasi.
Nello stesso tempo, ogni due settimane, si pratica una ecografia fetale morfologica avanzata per valutare la crescita ed una eventuale dilatazione dei ventricoli cerebrali del feto e si ricercano eventuali calcificazioni sia cerebrali che epatiche, la presenza di idrope, di ascite e altre anomalie, ove presenti. Alcuni dosano sul sangue fetale anche le IgA e le IgE specifiche antitoxoplasma, perché si tratta di immunoglobuline incapaci di attraversarela placenta, così come le IgM e la loro presenza nel sangue fetale è quindi indice sicuro di produzione fetale e non materna.
Se una donna si trova ancora alla prima metà della sua gravidanza e vuole proseguirla pur non sapendo che il feto è risultato infetto, si inizia immediatamente un trattamento con spiramicina per bocca: il farmaco attraversa la placenta e si concentra bene nei tessuti fetali. La spiramicina riduce unicamente il rischio che l’infezione materna passi al feto quando il feto non risulta ancora infettato, ma nulla può contro il quadro di infezione fetale che si può sviluppare se il parassita è già arrivato al feto. Se il feto, invece, risulta essere già stato contagiato, alla terapia con spiramicina si aggiungono pirimetamina e sulfadiazina. La pirimetamina è un farmaco antimalarico efficace anche contro il toxoplasma, mentre la sulfadiazina è della famiglia dei sulfamidici. La pirimetamina non può essere iniziata prima della fine del quinto mese di gravidanza perché troppo tossica per il feto. Entrambi i farmaci sono tossici per il midollo e ne inibiscono la funzione perché antagonisti dell’acido folico. I farmaci vanno quindi usati a rotazione e a cicli assieme a farmaci stimolanti il midollo spinale e all’acido folico.
Non esiste un vaccino contro la toxoplasmosi: l’unica prevenzione posibile, quindi, è l’osservanza estremamente scrupolosa di tutte le norme igieniche consigliate in questo caso e che sono già state trattate in un articolo sullo stesso argomento già pubblicato sul sito.
Ma quali danni può subire un feto infettato dal toxoplasma?
L’incidenza della toxoplasmosi congenita è molto variabile da paese a paese, ma se si osservano norme preventive accurate e se si attua tempestivamente un corretto trattamento alla madre in gravidanza e al neonato sin dalla nascita, rimane al di sotto dell1/1000.
Circa due terzi dei neonati con infezione congenita da toxoplasma non presentano sintomi apparenti alla nascita. Però, se studiati più a fondo, un terzo di questi neonati asintomatici ha delle alterazioni del liquido cefalorachidiano quando si pratica la puntura lombare (aumento del numero delle cellule, aumento delle proteine), presenta corioretinite e calcificazioni endocraniche caratteristiche.
Dopo varie settimane o mesi dalla nascita, inoltre, se essi non vengono adeguatamente trattati, possono sviluppare i sintomi della malattia anche se in varia forma: lieve, moderata o grave.
La malattia può interessare vari organi o apparati oppure uno solo, come spesso avviene quando è interessato il sistema nervoso centrale: può svilupparsi o essere presente alla nascita idrocefalo e epatosplenomegalia (aumento delle dimensioni del fegato e della milza), oppure può svilupparsi un ittero persistente. Circa un terzo dei feti affetti da toxoplasmosi congenita nasce prematuramente ma solo il 10% è grave sin dalla nascita.
I casi più gravi presentano sin dalla nascita febbre, ittero, anemia, epatosplenomegalia, corioretinite; altri hanno problemi neurologici, spasticità, idrocefalo, encefalite e calcificazioni endocraniche; altri hanno esiti gravi come ritardo mentale, spasticità e problemi alla vista. L’anatomia delle strutture cerebrali è spesso compromessa da processi infiammatori, vasculiti e calcificazioni che possono ostruire il deflusso del liquido cefalorachidiano e si può sviluppare anche un idrocefalo, a volte solo per dilatazione dei ventricoli cerebrali ex-vacuum, cioè come compensazione di un maggior spazio vuoto intracranico dovuto ad atrofia della massa cerebrale.
I sintomi clinici più evidenti sono, quindi, a carico del cervello (encefalite, sindrome spastica o ipotonica, microcefalia, opistotono, difficoltà a deglutire e quindi ad alimentarsi), di tutti gli organi di senso, ma in particolare dell’occhio (nistagmo, microftalmia, atrofia del nervo ottico, coloboma, corioretinite, distacco di retina, cataratta, interessamento maculare, strabismo, emorragie retiniche), oppure dell’orecchio (sordità), oppure dell’apparato gastroenterico (diarrea, vomito, difficoltà alimentari), oppure del fegato e delle vie biliari (ittero, atresia delle vie biliari), oppure problemi renali o ossei, oppure problemi a carico della cute (rash, ecchimosi, petecchie), oppure a carico del sangue (eosinofilia, alterazioni dei leucociti e delle piastrine). Il bambino può albergare il parassita nel sangue e nelle urine.
Il trattamento dei bambini sintomatici è attuato con gli stessi farmaci utilizzati per la madre infetta, a cicli e alternati o affiancati al cortisone.
I bambini asintomatici alla nascita sono comunque trattati farmacologicamente per un anno se in gravidanza e alla nascita sono risultati infettati. I bambini apparentemente non infettati vengono comunque trattati con pirimetamina per tre settimane e con spiramicina per le 4-6 settimane successive. Se le madri sono state trattate in gravidanza, vi sono ottime probabilità che il neonato nasca asintomatico e resti tale. I controlli, però, dovranno essere continui anche per i primi due anni, perché anche nel secondo anno di vita può comparire la corioretinite caratteristica, anche se, sicuramente, in forma lieve, abbastanza lieve da non pregiudicare la visione.
Superato il secondo anno di vita, i neonati asintomatici con toxoplasmosi congenita che si sono sempre mantenuti asintomatici hanno ottime probabilità di non presentare mai sintomi per tutto il resto della loro vita, purché la terapia sia stata molto precoce e regolarmente praticata.